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Gino Bogoni

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"L'uomo Bogoni - Lettera di un amico", di Franco Chierego

Carissimo Gino,

mi e' assai gradita l'occasione che mi viene data di scrivere due righe su questo foglio, per dirti alcune cose che forse a voce non avrei mai saputo dire perche' l'amicizia fra uomini ha dei limiti di espressivita' in cui il sentimento e' un poco mascherato da una scorza di presunta durezza e falsa ritrosia.


Da medico, abituato a vedere nel volto la sofferenza, il dolore, la partecipazione emotiva di molti ammalati, voglio esprimerti la stima, l'ammirazione incondizionata che ho per te. Sentimento nato dall'osservazione della tua partecipazione ad alcune tue vicende mediche delle quali io sono stato compartecipe e per le quali con te ho sofferto e gioito.


Se la personalita' di un uomo si vede da come affronta i momenti dolorosi della propria esistenza, allora tu sei per me uno degli uomini piu' degni di portare con orgoglio questa importante qualifica.


Se l'entusiasmo di un cuore puro si vede dal coraggio con cui affronta uno scontro con la medicina, allora ti assicuro che per te il cardiologo non sara' mai necessario.


Se la riconoscenza si vede dalla profondita', dall'intensita' di uno sguardo, allora io so di possedere il dono piu' grande che si possa desiderare: la tua amicizia, l'amicizia di un vero uomo.


Devo dire anche che la tua umanita' vive un poco di quella luce riflessa che ti viene dalla donna che ha la fortuna di condividere come moglie la tua esistenza. E' una donna che ti esalta, stimola, tace, soffre, sorride. E' una donna.


Molte battaglie dovro' affrontare ancora nella mia carriera medica, battaglie a lieto fine come la nostra, battaglie a finalita' drammatica come l'inesorabile umana natura a volte impone.


Ma se la medicina per un medico responsabile vuol significare partecipazione alle altrui vicende, allora devo ringraziare la mia professione per avermi fatto conoscere così intimamente un vero uomo.

Grazie Gino, grazie di cuore per la tua amicizia.

 

Franco Chierego

"Il percorso artistico di Gino Bogoni - Interviste al Maestro" di Jean-Pierre Jouvet

Gino Bogoni e' uno degli artisti piu' complessi e completi del panorama contemporaneo vivacemente attivo e presente nelle piu' significative manifestazioni nazionali ed internazionali. Le sue opere, presenti in collezioni pubbliche e private sia in Italia che all'estero, non si lasciano scoprire immediatamente, ma vanno a lungo guardate e meditate. E piu' si osservano piu' esse ci trasmettono sensazioni ed emozioni senza pari.


Quest'uomo, che viene da una famiglia molto povera, si e' fatto con le sue mani, nel vero senso della parola, perche' proprio guardando le sue mani lavorare con la materia e nella materia, si poteva capire che questo stupendo, fecondo, battagliero ed originale scultore era nato artista.


Comincio' quando aveva ancora i calzoni corti scolpendo pietre e sassi con ferri rudimentali, poi, dopo gli studi all'Accademia Cignaroli, l'esperienza tragica della guerra sul fronte russo, il campo contumaciale e un lungo periodo di prostrazione e di crisi psicologica-creativa, la corsa sicura e risoluta verso l'affermazione, dapprima in campo regionale, poi nazionale ed infine internazionale.

Proponiamo alcuni brani delle innumerevoli interviste fattegli tratteggiando con le sue risposte il suo percorso artistico ed umano.

Ci puo' dire qualcosa di lei Maestro ?

'Sono partito con il soggetto del "Bovino" (1956 - '61), attratto dal suo peso e dalle sue capacita' statiche, esprimendomi con opere quasi primordiali. Ho risposto ad una mia volonta' di rispettare la materia, con pochi gesti immediati. Il riconoscimento di questi anni e' stato il premio nazionale che nel '61 ho ricevuto qui a Verona. Successivamente ho attraversato un periodo tormentato di ricerca (1962 - '65). In questa fase accettavo tutto cio' che mi veniva senza pensare se potesse valere o meno. Ho poi provato tutto il senso della mia esuberanza interiore, ma anche la coscienza della chiarezza delle mie idee. Da cio' e' nata la mia nuova scultura ('65 -'67). Ho prodotto le "Ombre", le "Grandi Ruote", le "Forme Vitali" e le "Planimetrie". Sempre nel '67 ho creato l' "Oggetto Scultura". Nel '68 sono andato alla ricerca di un mio segno grafico, perche' non avevo mai fatto disegno precedentemente. Nel '69 sono ritornato sui "Bovini". Poi nel '71 ho creato il "Seme Cosmico", con la riproposta di un mio precedente interesse per il nucleo. Nel '72 - '73 e' nato il "Lotus", che mi ha comportato i massimi riconoscimenti mondiali. Successivamente sono passato al "Guado" ('73 -'74), in cui ho cercato di eliminare parte dell'immagine, interessandomi maggiormente della forma e della composizione. Dal 1976 al 1985 ho rappresentato la donna, tornando all'argilla e sfruttando con immediatezza le possibilita' plastiche date dalla pressione del pollice. Nel '82 - '83 ho inventato l' "Helianthus" (l'irrazionale, il disordine) una conseguenza del "Lotus" (il razionale). Dal 1982 al 1985 mi sono dedicato ai "Cosmi" che hanno offerto un'occasione per approfondire il discorso sul concavo e sul convesso. Nel 1989 infine ho ripreso in grandi dimensioni l' "Oggetto Scultura" del '67 '.

E le "Grandi Ruote" da che cosa sono nate ?
"Dall'effetto di un sasso nell'acqua : un buco centrale e cerchi che si espandono. Il cerchio e' la vita. Da questa idea sono nate le sculture della Biennale di Venezia".

Con "Lotus" che cosa ha voluto fare ?
"Ho cercato di uscire dal pieno del nucleo mediante immagini radiali che somigliano a punte di riccio marino. Il nucleo ha un vuoto centrale, generatore e divorante. I "Lotus" si possono vedere come vegetali o come animali e possono suscitare sensazioni particolari, anche di tipo sessuale".

Come ha trattato le "Donne" ?
"Ho assecondato il bisogno di tornare alla "materia facile", da modellare con il pollice. Avevo gia' superato la figura, ma vedendole per la strada le assorbivo. Le mie "donne" sono forme che camminano o che restano ferme in piedi. Sono come colonne, come piante. E' quasi tutto inventato. Non e' piu' la donna che provoca. E' una donna pura, pulita. Queste mie creature sono uscite da un solo desiderio : ritornare appunto a plasmare quella materia che lasciai circa vent'anni fa : l'argilla. L'argomento mi e' sbocciato tra le mani con il vigore di una fiamma. Io ho sempre lavorato abbandonandomi al mio istinto e lasciandomi prendere dalla materia. Queste creature sono state portate alla luce nella pienezza della gioia, come i figli nati da un gesto d'amore".

Con le "Mutazioni" ha rappresentato anche la lotta contro il male ?
"Probabilmente. Ho messo le mani nella materia e mi sono abbandonato. L'artista dimentica i suoi problemi mentre crea. Ha una grande forza interiore, che gli puo' servire persino a livello terapeutico".

Che importanza ha per lei l'attivita' artistica ?
"Incomparabile ! Non saprei concepire un modo di vivere diverso da quello che il destino mi ha assegnato. Fare scultura per me significa respirare, credere nelle meravigliose facolta' dell'uomo, partecipare all'evoluzione della cultura, del progresso, dell'intelligenza... Significa tutto !".

Ha subito traversie drammatiche, e' stato piu' volte a un passo dalla morte in guerra e negli ospedali. Non pensa di aver bisogno di quiete, di distensione, dopo aver fatto sacrificio di tante energie ?
"Sacrificio ? No, non e' stato un sacrificio, anche se ha comportato tante sofferenze, tanti tormenti, tanta tensione. Ricomincerei daccapo se lo potessi, con la stessa passione, la stessa caparbia volonta' della mia preistoria di scultore. Non puo' esserci riposo per un artista, mai, fino alla fine".

E cosi' e' stato, perche' nel 1990, anno della sua morte, Gino Bogoni, poco prima di entrare in clinica per l'ennesimo e purtroppo ultimo intervento ha portato a compimento una sua grande opera "Frutto Oggetto Scultura". L' opera esposta permanentemente in una piazza del centro storico di Verona, e' stata donata alla citta' dagli eredi Bogoni per esaudire il desiderio di questo straordinario artista dando voce a quel legame molto forte che ha sempre unito Gino Bogoni alla sua citta' e ai suoi cittadini.
Ma Gino Bogoni e' anche e soprattutto cittadino del mondo perche' nelle sue opere, citando una bellissima frase di Francesco Butturini, noto critico d’arte "... si avverte l'apparire, anzi l'affiorare di un battito universale, che supera ogni barriera per divenire ed essere".

Gino Bogoni ha saputo imporsi ed inserirsi di diritto nel mondo dell'arte come uno dei suoi indiscutibili protagonisti, avendo felicemente coniugato, la sua inesauribile radice scaligera, con i grandi sviluppi internazionali della scultura contemporanea.

Jean-Pierre Jouvet

Recensione di Garibaldo Marussi

Delle sculture di Gino Bogoni vorrei prima di tutto sottolineare la singolare e ormai rara rifinitura. In un tempo in cui tutto tende al sempre piu' provvisorio, nel quale labilita' ed incertezza sembrano i fattori dominanti, nel quale spesso un legno corroso o un rifiuto rugginoso possono fare scultura, Bogoni con ostinazione presenta opere nelle quali il fatto plastico non e' truccato, dove ogni piano ha un suo senso e una sua ragione.


Non per nulla e' veronese, non per nulla nella sua citta' sono nate le formelle di San Zeno, che, certamente in qualche modo, devono aver contribuito alla sua maturazione formale. Ma non ci si fraintenda, Bogoni non si ispira al passato, ma ne tiene conto e si inserisce di diritto nel pieno della scultura europea moderna, la piu' nobile.


Ci sembra chiaro che le sue preferenze, le sue simpatie vanno a un certo tipo di scultura neocubista, ma alla asperita' di essa, egli contrappone una finezza e una dolcezza che sono caratteristiche venete.


E' evidente che, senza tanti discorsi teorici, senza tanti programmi, egli si appoggia al concetto antico della scultura a tre dimensioni, basata sopra uno stretto e logico impianto disegnativo. Per queste ragioni e' anche orafo, di alta qualita'. Senza impennamenti e capricci. Per queste ragioni e' anche medaglista di valore.


La serie di opere che egli qui presenta - come in altra occasione ha fatto con le sue composizioni ispirate alle rocce lunari, al mistero di quelle lontane (ma ormai vicine) ragnatele di bolle e di scoppi, che per lui diventano particolari circoscritti e resi plastici di una topografia stellare - questa serie di opere, dicevamo, con spirito quasi virgiliano ricorda indirettamente il buon lavoro dell'uomo, attraverso gli animali che nei campi gli sono piu' vicini. Sono come stagioni antiche, sorrette dal ricordo delle bucoliche e delle georgiche, cantate da un poeta che in quelle terre e' nato.


Per questo, per lo spirito moderno che lo sostiene e lo anima, Bogoni resta ancorato, per fortuna ancora, a quelle che sono le antiche ragioni della vita.

Garibaldo Marussi, 1971

"Gino Bogoni: scolpire significa respirare" di Michele De Luca

"L'attivita' artistica ha per me un valore ineguagliabile. Non potrei vivere in un modo diverso da quello che il destino mi ha assegnato. Fare scultura per me significa respirare". Sono parole di Gino Bogoni (Verona 1921 - 1990), che dopo quarant'anni torna a Roma con una prima antologica nazionale a sedici anni dalla sua scomparsa. La mostra, curata da Francesco Butturini (quale suo biografo e studioso, autore di due monografie, Gino Bogoni edita nel 2001 e Gino Bogoni, dipingendo sulle ali delle farfalle, edita nel 2003 presso le Edizioni d'arte Ghelfi di Verona) e dalla nuora dell'artista, Patrizia Arduini Bogoni, allestita a cura del Banco Popolare di Verona nelle sale di Palazzo Altieri in piazza del Gesu' a Roma, presenta un panorama della sua produzione come scultore e come grafico, dalle primissime opere (Vecchia Sofia, 1947; Gallina, 1952; Giancarlo, 1952) alle celebri donne degli anni '70, alle sculture che lo hanno reso celebre a livello internazionale quali Lotus, Heliantus, Mutazioni, Metamorfosi, Quadrato vitale.


Allievo presso l'accademia veronese G.B. Cignaroli dello scultore Franco Egidio Girelli, inizio' la sua ricerca studiando e riproducendo i bronzi delle formelle della porta del San Zeno di Verona e delle immagini arcaiche della Lessinia. La conoscenza diretta delle opere di Arturo Martini, Luciano Minguzzi, Giacomo Manzu' e soprattutto di Marcello Mascherini, con cui collaboro' a lungo in prestigiose commissioni, lo avvio' progressivamente in una ricerca autonoma che lo impose a livello nazionale con due importanti presenze alla Quadriennale romana del 1965 e alla Biennale veneziana del 1966.

Una spinta ulteriore al rinnovamento della scultura gli venne dal viaggio negli Stati Uniti nel 1968 e dal confronto sempre piu' libero e vivace con le esperienze piu' significative italiane ed europee, presenti in Italia nelle ricerche plastiche e spaziali di Consagra e Arnaldo Pomodoro cui la produzione degli anni '60-70 di Bogoni e' sensibilmente vicina. Come ha scritto Giorgio Cortenova, "questo artista rappresenta piu' di ogni altro la scultura veronese e, nello stesso tempo, coniuga la sua inesauribile radice scaligera in modo tale da evadere e comunque da inserirla nei grandi sviluppi internazionali della scultura contemporanea".


Di questa ricerca plastica dalle profonde motivazioni esistenziali, Bogoni da' una ricca e fruttuosa testimonianza con i bronzi fusi nell'ultima parte della sua vita: la serie numerosa delle Donne, dei Lotus, delle Mutazioni e degli Helianthus. Vicino a questa sezione fondamentale della sua produzione, vengono esposte venticinque pitture: esplosioni cromatiche o delicatissimi calchi per impressione di foglie, di sassi, di rami in una ragnatela essenziale che sarebbe tanto piaciuta a un Bissier.


Nella sequenza storica della sua ricerca, ben rappresentata dalla mostra romana, e' necessario citare alcune opere fondamentali, divenute famose grazie anche ad una sostanziosa e prestigiosa serie di premiazioni e riconoscimenti: da Bovino (1961) con cui vinse il premio alla Biennale di Verona, a Le grandi ruote e Forme di vita (1965) nate dall'osservazione di oggetti e forme della quotidianita', come ci rivela lui stesso nel suo "Diario d'artista" e con le quali ha partecipato alla IX quadriennale di Roma. Senza dimenticare la serie delle Vacchette (1959 - '60) e il Lotus (1972-73), con il quale nel 1973 ha vinto il 1^ Premio al 9^ Concorso Internazionale del Bronzetto di Padova, sorta di inflorescenza plastica dalla forma primordiale le cui lamelle bronzee se suonate e percosse emettono vibrazioni profonde e intense. Come pure Fluenza del 1967 con la quale ha vinto a Parigi alla Rassegna Internazionale d'Arte Contemporanea la Coppa della Critica Francese - Unesco.


Riguardo alle oltre cento Donne create dall'artista veronese Butturini scrive: "Le Donne di Bogoni, sono generazione dell'inconscio, rivelazione dell'inconscio con un procedimento consequenziale, eppure frutto di un dominio perfetto della materia che non deriva da una precisa volonta' creativa, ma dall'ansia di stare a vedere cosa viene fuori..". Che sia bronzo o carta, muoversi tra le opere di Gino Bogoni e' passeggiare in un bosco che giunge fino al mare. Perche' e' materia che respira, si agita come fosse al vento e sogna il suo colore. E ancora citando Butturini "in ogni fusione di Bogoni, nelle sue eruzioni lunari o nelle modulazioni plastiche che sembrano modellarsi nella luce e nell'aria con il gesto sottilmente erotico di una prorompente femminilita', avverti l'apparire, anzi, l'affiorare di un battito universale, che supera ogni barriera, per divenire ed essere."


Sulla sua vita rende conto il volume "Diario d'artista", presentato in occasione della mostra. Ultimo di sei fratelli, Bogoni nasce a Verona il 7 luglio 1921. Un'infanzia infelice, dovuta alla morte della madre, un'adolescenza difficile, ma precocemente aperta all'arte, quando nel 1934 incontra Girelli, direttore dell'Accademia Cignaroli, divenendo cosi' a soli tredici anni, l'allievo e l'assistente del maestro. Per lui lavora a opere sempre piu' importanti fino al conseguimento del diploma in Scultura conseguito nel 1939. Continuo' a frequentare l'Accademia fino al giugno del 1941, quando fu chiamato sotto le armi e spedito in Russia, dove fra avventure incredibili, rimase fino alla primavera del 1943, ritornando in Italia, a piedi, da solo. Il 22 aprile 1944 sposa Lina che aveva conosciuto in un brevissimo incontro prima di partire per la Campagna di Russia. Dalla loro unione nasceranno Giancarlo e Franco.


Dal 1947 insegna per sette anni disegno ornamentale e scultura alla "Scuola d'Arte Applicata all'Industria" di San Michele Extra di Verona. Nel 1971 insegna scultura all'International Sommerakademie Fur Bildende Kunst di Salisburgo (Austria). Tiene poi corsi di Scultura in Belgio presso le Accademie di Liegi, Bruxelles, Anversa, Verviers e Hasselt. Nonostante nella sua vita abbia dovuto combattere per ben venticinque anni con un male terribile, ha sempre continuato la sua attivita' superando il dolore con la forza di volonta' e traendo da esso nuove energie; soleva dire: "Non puo' esserci riposo per un artista, mai, fino alla fine".

E cosi' e' stato, perche' nel 1990, anno della sua scomparsa, poco prima di entrare in clinica per l'ennesimo e purtoppo ultimo intervento, Bogoni, caparbiamente, ha portato a compimento la sua grande opera Frutto oggetto scultura, che ora, per donazione fattane dagli eredi, e' esposta permanentemente nel centro storico di Verona, in Piazzetta S.Nicolo'. Consapevole dei forti pericoli dell'intervento da affrontare, lo scultore confesso' in un suo scritto: "Questa potrebbe essere la mia ultima opera, non posso rischiare che rimanga allo stadio di idea e nemmeno di bozzetto. Devo assolutamente realizzarla prima, a qualsiasi costo. Ed eccola qui, compiuta".

Michele De Luca, 2006

"Gino Bogoni e il duplice itinerario" di Silvano Martini

Sappiamo che alcune fra le ricerche espressive piu' libere del nostro tempo passarono, a un determinato momento della loro evoluzione, dal finito al suo presupposto. Fu la conseguenza di un convincimento: si raggiunge meglio il significato dell'esistenza indagandone la struttura piuttosto che le sue manifestazioni.


Evidentemente, superando il concreto per accedere all'informale, si riteneva questa sponda un luogo conclusivo.
Gino Bogoni, come pochi altri, ha voluto compiere invece un'ulteriore esperienza. Alla via verso l' "interno" ha aggiunto quella verso l' "esterno". Della sfera che compone il suo mondo, conosciamo adesso compiutamente la concavita' e la convessita'. Questo suo nuovo impegno non va tuttavia considerato come un ripensamento. Altrimenti non avremmo che la riproposta di un dato conosciuto. Esso sta invece a confermare indirettamente che il passaggio all'informale, in questo scultore, fu determinato da precise ragioni.
Il reale venne compendiato all'inizio, da Bogoni, in una delle rappresentazioni piu' semplici: la forza paziente dell'animale. 


Riscattava l'operazione una particolare ricerca. Al modellato, veniva sostituita la costruzione raggiunta nella sicurezza di pochi gesti. L'immediatezza dava alla materia un'impronta carica di spontaneita'. L'ambizione di Bogoni era quella di toccare le cose che aveva dentro eliminando al massimo i tramiti. Egli era persuaso che, cosi' facendo, nulla sarebbe andato perduto di quella vigoria che infonde una presenzialita' esaltante alle cose. Dovette naturalmente inventare una sua tecnica, per stabilire sul mezzo quel dominio che gli consentisse un largo margine di liberta'.


La scelta del soggetto - il bovino - aveva la sua giustificazione. Bogoni prendeva a modello un aspetto elementare del mondo. Questa riduzione riusciva a cogliere il "persistente" meglio delle argomentazioni selezionate. Ma al di la' di quanto poteva colpire immediatamente l'attenzione, nel suo modo di rappresentare si incontrava quel ritmo vitale che caratterizza l'esistenza.


Fu il prevalere di questo senso del dinamismo che lo porto' a oltrepassare il figurale per rintracciare le fonti. Nacquero cosi' le sue grandi composizioni, nelle quali era colto il momento ontico primordiale, o dell'essere non ancora identificabile, matrice di ogni forma. La temporalita' acquisiva la sua potenza originaria. Bogoni regrediva al nucleo profondo della convulsione materica. Investiva l'assoluto naturale, il momento antepredicativo dell'esserci, al quale ha fatto seguito ora la sua condensazione in un concreto specifico. Dalla prima materia, risultato di una semplice intuizione, e' rimasta operante la tecnica, perfezionata da una sapiente escavazione. Della successiva, la piu' importante e ancora oggi la preminente, e' avvertibile la modalita' e la forza.


Non di un ritorno a uno schema estrinseco, possiamo quindi parlare, bensi' di una meditata assunzione al morfismo di energie primarie, in un linguaggio coerente. Le riprese tematiche sono in genere riconosciute come evasioni transitorie o segni di sfiducia. Qui abbiamo invece la delineazione di un'immagine che intende designare la virtualita' segreta e proliferante dell'essere da cui proviene.
Il passaggio dal fondo dell'indeterminazione all'armonia della possibilita' realizzata e' avvenuto con quella naturalezza che sta a indicare la necessita' di quest'ultima curvatura e a confermare le sicure doti interpretative di Bogoni.

Silvano Martini, 1970

"Un autoritratto di Bogoni: il suo 'Diario' " di Michele De Luca

Il Diario d'artista di Gino Bogoni e' nato nella seconda meta' degli anni Settanta, quando lo scultore, ormai noto in patria e fuori, si arrabattava tra una malattia e l'altra, tra una mostra e l'altra, in mezzo a un forsennato lavoro creativo, cui dobbiamo alcuni tra i suoi piu' alti capolavori. Il Diario rimase nelle mani dei figli, insieme alle opere. Poi passo' nella mani del suo biografo e critico maggiore, Francesco Butturini, che dapprima ne aveva tratto alcune citazioni e molti impulsi all'interpretazione dell'opera dell'artista, nella prima monografia, uscita nel 2001. Ora, sempre a cura di Francesco Butturini, compare in un'edizione elegante e completa per Gemma Editco, edizione che e' stata presentata, davanti a un pubblico commosso e partecipe, alla Societa' Letteraria. Al tavolo, quali relatori, lo stesso Francesco Butturini, Antonio Felice, giornalista, e l'assessore alla Pubblica Istruzione del Comune di Pescantina, un luogo particolarmente caro a Bogoni e alla sua famiglia.


Butturini ha annunciato che dopo la recentissima mostra antologica a Roma (un vero successo!), si sta preparando un'altra mostra a Trieste, dove le opere di Bogoni saranno esposte accanto a quelle di Mascherini, uno dei grandi scultori, con cui ha lavorato. Butturini, curatore di questa edizione del Diario, ha voluto giustamente conservarne la trama frammentaria che, piu' che un ordinato percorso cronologico (ma alla fine e' ricostruibile anche quello!), ha l'impronta della occasionalita' delle riflessioni e delle esperienze, da cui e' nato, in momenti distanti e diversi, probabilmente come impulso irresistibile a dire i propri pensieri, le proprie emozioni e ricordi.


Antonio Felice ha sottolineato come il libro sia una testimonianza semplice, diretta, sincera, e per questo estremamente significativa, dell'artista e della sua arte e ne ha ripercorso gli elementi narrat ivi fondamentali. Perche' il Diario e' anche un romanzo di formazione e una bellissima storia di avventura e riscatto: Bogoni nasce povero e perde la mamma precocemente. Come nelle fiabe, lo alleva una cattiva matrigna. Cresce senza amore, fra i disagi, le fatiche di un lavoro pesante e ingrato, in famiglia si sente sempre rifiutato come un intruso. Appena ragazzino viene messo a lavorare da uno scalpellino che prepara lapidi per le tombe del cimitero.


E poi ecco l'evento che riaccosta la sua storia alle storie miracolose di altri straordinari artisti, come Giotto per esempio. Mentre lavora duramente a scolpire, lo vede Franco Girelli, allora direttore della Accademia Cignaroli, che, colpito dalla sua nativa abilita', lo iscrive all'Accademia e ne fa il proprio aiutante. Ma poiche' la vita non e' una fiaba, il rapporto fra i due non e' proprio felice e Bogoni si sente giustamente un po' sfruttato e sottovalutato. La situazione migliora nella collaborazione con Mascherini. Con lui Bogoni entra nell'ambito ristretto, in cui lavorano i grandi scultori, frequenta fonderie prestigiose e risolve con la sua nativa genialita', anche tecnica, poderosi problemi statici.


Ci sono nel Diario episodi emozionanti, risoluzioni impreviste di problemi apparentemente impossibili: come appendere al soffitto di un transatlantico una statua in vetro di Mascherini che dovra' fare da lampadario, ma dovra' anche reggere il movimento delle onde; come far passare la forma in cera di una scultura attraverso porte troppo piccole per poterle superare ecc. Bogoni pero' e' artista, oltre che artigiano geniale, e il suo percorso conferma lo sforzo per uscire da un ruolo che sente troppo stretto per le sue possibil ita'.


Butturini si e' soffermato sul percorso dell'artista e sul difficile rapporto che lega Verona ai suoi autori. Verona, citta' matrigna verso gli artisti, dice Butturini. Sappiamo che nessuno e' profeta in patria, ma il rammarico resta ugualmente, anche se Bogoni fu riconosciuto tardi anche per il suo essere in anticipo sui tempi. Le sue opere si possono accostare soltanto a grandi esempi europei e americani che ancora non erano arrivati nella sua piccola patria veneta.


Di Bogoni, Butturini giustamente ricorda l'eroico comportamento verso la malattia, fronteggiata fino all'ultimo con straordinaria resistenza al dolore. Ma anche il disinteressato e splendido rapporto che lo lega alla sua vocazione, anche nella poverta' di mezzi che lo afflisse sempre. La gratuita' della sua dedizione all'arte fu forse uno degli elementi piu' rilevanti di tutto il suo percorso. Valga per questo una frase del Diario: "Considero l'artista un piccolo eroe, perche' sa dare tutto in cambio di nulla, anche in cambio di non essere capito".

Michele De Luca, 2006

Autoritratto di Bogoni nel "Diario" le sue riflessioni ed esperienze, di Paola Azzolini

Il Diario d'artista di Gino Bogoni e' nato nella seconda meta' degli anni Settanta, quando lo scultore, ormai noto in patria e fuori, si arrabattava tra una malattia e l'altra, tra una mostra e l'altra, in mezzo a un forsennato lavoro creativo, cui dobbiamo alcuni tra i suoi piu' alti capolavori. Il Diario rimase nelle mani dei figli, insieme alle opere. Poi passo' nella mani del suo biografo e critico maggiore, Francesco Butturini, che dapprima ne aveva tratto alcune citazioni e molti impulsi all'interpretazione dell'opera dell'artista, nella prima monografia, uscita nel 2001. Ora, sempre a cura di Francesco Butturini, compare in un'edizione elegante e completa per Gemma Editco, edizione che e' stata presentata, davanti a un pubblico commosso e partecipe, alla Societa' Letteraria. Al tavolo, quali relatori, lo stesso Francesco Butturini, Antonio Felice, giornalista, e l'assessore alla Pubblica Istruzione del Comune di Pescantina, un luogo particolarmente caro a Bogoni e alla sua famiglia.
Butturini ha annunciato che dopo la recentissima mostra antologica a Roma (un vero successo!), si sta preparando un'altra mostra a Trieste, dove le opere di Bogoni saranno esposte accanto a quelle di Mascherini, uno dei grandi scultori, con cui ha lavorato. Butturini, curatore di questa edizione del Diario, ha voluto giustamente conservarne la trama frammentaria che, piu' che un ordinato percorso cronologico (ma alla fine e' ricostruibile anche quello!), ha l'impronta della occasionalita' delle riflessioni e delle esperienze, da cui e' nato, in momenti distanti e diversi, probabilmente come impulso irresistibile a dire i propri pensieri, le proprie emozioni e ricordi.
Antonio Felice ha sottolineato come il libro sia una testimonianza semplice, diretta, sincera, e per questo estremamente significativa, dell'artista e della sua arte e ne ha ripercorso gli elementi narrat ivi fondamentali. Perche' il Diario e' anche un romanzo di formazione e una bellissima storia di avventura e riscatto: Bogoni nasce povero e perde la mamma precocemente. Come nelle fiabe, lo alleva una cattiva matrigna. Cresce senza amore, fra i disagi, le fatiche di un lavoro pesante e ingrato, in famiglia si sente sempre rifiutato come un intruso. Appena ragazzino viene messo a lavorare da uno scalpellino che prepara lapidi per le tombe del cimitero.
E poi ecco l'evento che riaccosta la sua storia alle storie miracolose di altri straordinari artisti, come Giotto per esempio. Mentre lavora duramente a scolpire, lo vede Franco Girelli, allora direttore della Accademia Cignaroli, che, colpito dalla sua nativa abilita', lo iscrive all'Accademia e ne fa il proprio aiutante. Ma poiche' la vita non e' una fiaba, il rapporto fra i due non e' proprio felice e Bogoni si sente giustamente un po' sfruttato e sottovalutato. La situazione migliora nella collaborazione con Mascherini. Con lui Bogoni entra nell'ambito ristretto, in cui lavorano i grandi scultori, frequenta fonderie prestigiose e risolve con la sua nativa genialita', anche tecnica, poderosi problemi statici.
Ci sono nel Diario episodi emozionanti, risoluzioni impreviste di problemi apparentemente impossibili: come appendere al soffitto di un transatlantico una statua in vetro di Mascherini che dovra' fare da lampadario, ma dovra' anche reggere il movimento delle onde; come far passare la forma in cera di una scultura attraverso porte troppo piccole per poterle superare ecc. Bogoni pero' e' artista, oltre che artigiano geniale, e il suo percorso conferma lo sforzo per uscire da un ruolo che sente troppo stretto per le sue possibil ita'.
Butturini si e' soffermato sul percorso dell'artista e sul difficile rapporto che lega Verona ai suoi autori. Verona, citta' matrigna verso gli artisti, dice Butturini. Sappiamo che nessuno e' profeta in patria, ma il rammarico resta ugualmente, anche se Bogoni fu riconosciuto tardi anche per il suo essere in anticipo sui tempi. Le sue opere si possono accostare soltanto a grandi esempi europei e americani che ancora non erano arrivati nella sua piccola patria veneta.
Di Bogoni, Butturini giustamente ricorda l'eroico comportamento verso la malattia, fronteggiata fino all'ultimo con straordinaria resistenza al dolore. Ma anche il disinteressato e splendido rapporto che lo lega alla sua vocazione, anche nella poverta' di mezzi che lo afflisse sempre. La gratuita' della sua dedizione all'arte fu forse uno degli elementi piu' rilevanti di tutto il suo percorso. Valga per questo una frase del Diario: "Considero l'artista un piccolo eroe, perche' sa dare tutto in cambio di nulla, anche in cambio di non essere capito".

Paola Azzolini, 2007

Recensione di Alessandro Mozzambani

E' quantomeno curioso lo scontrarsi nel lavoro di Bogoni della sua componente tecnologica (come ricerca di modi e possibilità espressive) con quella emotiva, che pone sempre lo scultore in uno stato di perenne ansia felice per una somma di sensazioni giovanili che portano concitatamente le sue scoperte (situate tra il fantastico e il naturalistico) a compiersi con interessanti e complesse vicende formali.
Bogoni ha per lungo tempo diffidato del disegno, forse nel timore di scaricare sul foglio la prima emozione e poi di non saperla ricreare che freddamente sul successivo piano plastico.
In una natura colma di eccitazioni come la sua e perennemente carica di piccole visioni e di particolarissimi tematici raccolti in ogni dove e nei modi più disparati (con occhi, mani, sensibilismo), uno sdoppiamento operativo fra disegno e scultura sembrava quantomeno impossibile, se non a prezzo di impasse traumatici, di interruzioni, forse di vere e proprie crisi di coscienza e quotidiana dubbiosità. L'uomo con le mani velocissime su cera plastilina e gesso, sembrava perdersi nella più ristretta ed angusta spazialità del foglio, e la penna, la matita, il segno, potevano essere modi troppo esteriori per toccare dentro la sostanza delle forme.
Cioè il rapporto sembrava non essere più tra idea e forma ma tra curiosità e l'immagine unidimensionale della forma, e allora capace di divenire un chiaro sintomo di trauma limitativo. Per arrivare alla grafica (se non alla grafia), Bogoni, doveva sdoppiare completamente il segno dagli eventuali conseguenti progetti plastici, e inaugurarsi ex-novo in piena maturità (fisica e produttiva) una infanzia immaginifica di proposte segniche che uscissero però da una serie interdipendente e ascensionale di piccole scoperte, di prove di mano, di procedimenti tecnico-espressivi capaci di caricarlo del tutto nell'ansia di trovare tecnologicamente insieme mondo e modo espressivi.
Bogoni è uomo di natura e fa scattare l'immaginazione in rapporto al concreto che gli è intorno, anche se le sue indagini e i suoi rilevamenti a volte provengono da motivi tanto particolari da sembrare di fantasia.
Il suo gusto del nascosto e dell'infinitamente piccolo mentre in scultura si è sempre formato in immagini concluse di mondi autonomi proprio per la loro concreta soluzione materica, nella grafica, invece, gli ha aperto la composizione fino a vari giochi ritmici che preludono uno spazio fluido, come una specie di ruotare spaziale di mondi in perenne movimento.
Bogoni uomo, in riferimento al suo lavoro, esplode dentro di sè attraverso i gesti nelle sue enfasi che lo somigliano a un frutto acerbo che vuole la piena estiva. Egli rompe gli argini logici e dilaga fino all'esaurirsi non dell'eccitazione tematica ma della forza fisica, per arrivare proprio nella quantità di prove che si accumulano, come un fiume nel tempo, a dimostrare (perfino nell'inconscio) a se stesso di essere vivo, e di fare potendo fare, sapendo nel contempo disponibili la carica e quella ansia energetica che sono il limite tra virilità operativa e le sue reali possibilità creative. L'estroversione di Bogoni è particolare, e all'origine di tipo parzialmente represso; in ciò si spiega il suo quantismo, la sua illimitatezza, il suo bisogno (disperato e felice) di produrre: per dare notizie della sua vita (e della vita di un uomo come uomo) come tentativo tra l'impossibile divenuto quotidiano come senso di quotidianità, di normalità di fare, e come diario di sè: uomo tutto intero, sbagliato, nudo, abnorme, concreto, perchè vivo. Bogoni vive questa sua abnormità, e perciò tutto il suo fare è sempre a braccetto con la natura (immensità) insieme matrigna e amante. Il suo è forse ancora l'eterno gioco della misura e della possibilità, nel senso dei confini tra scelta e realizzazione, tra senso e flusso vitale.
Infatti se Bogoni brucia ogni residuo di calcolo, pure si ritrova homo faber nella officina operosa del suo studio, dove (sovrano e crusoè) agitando una precisa e meticolosa cura di operazioni e di elaborate prove cerca il traguardo alle sue scoperte incanalando la foga delle ispirazioni dentro precise piste formali. Il risultato è un continuo principio perfino obbligatorio (psicologicamente), pur se sempre misterioso e altrettanto logico come un paradossale confronto tra l'inconscio e la tecnologia che deve dimostrarlo e renderlo piano e deciso di impronte visive.
La risultanza sono dei fogli come piccoli sistemi classici e apertissimi quanto perfetti e insieme modificabili perchè rinnovabili, perchè decisamente "in progress" per un "progress" fisico, quasi a respiro, e misurabile nelle pulsazioni come un ritmo che sia il ritmo come quantità di quotidiano vitalismo.
Ho detto prima della limitatezza del foglio come spazio fisico e ideale per lo sfogo gestuale dell'apprensivo dinamismo di Bogoni (il foglio è peraltro allargabile a misure notevoli, ma forse sono lo spessore e la labilità materica in rapporto agli spessori di solito usati in scultura a provocare il disagio) e allora il disegnare partito a primo colpo in modo diretto a segno vivo sulla carta si è quasi subito arrestato. Entrava allora in gioco l'altra natura di Bogoni, quella che elabora, che si strumentalizza di "trucchi" e di "espedienti" tecnici, di modi artigianali e esecutivi, e che di continuo si misura in tali alchimie solitarie e cercate con una volontà che fa sempre arrivare all'impossessarsi cosciente (perchè sempre ritrovato ex-novo al di fuori della più o meno notorietà e dell'uso in altri) di quanto necessitava per fare.
In Bogoni si maturò via via più forte la disponibilità a mediare il suo gesto segnico (o di reperimento mimetico) attraverso filtri e assorbenti liberanti in modo che i risultati venissero trasmessi per sequenze elaborate e capaci di garantire dopo quasi delle scoperte, cioè la "scoperta" (e proprio come epifania, l'alzare per vedere sotto cosa c'è come liberazione) di quanto, inciso e calcato, era stato trasmesso attraverso il potere espressivo degli inchiostri tipografici, capaci di riassumere il frutto dei gesti e le presenze delle materie sovrapposte (varie carte a veline, stoffa, sacco), e altre volte anche l'appoggio completante di veri e propri oggetti che vengono ad arricchire la composizione e persino a farle assumere aspetti simbolici (un ferro sbarrato diviene una finestra, una grata, una prigione, uno spazio ben delimitato che contiene e lascia sfuggire la matassa vermiforme e serica dei segni).
In Bogoni, partito da rilievi di foglie come appuntamento (e prova di sè nel "certo" che alla descrizione unisce la sicurezza comune e nota del dato natura-foglia) con la natura-madre-origine, via via sorgeva il bisogno di far nascere in proprio l'immagine, e le foglie cominciano a rompersi e a integrarsi nei tessuti fondali che le confondono e ricreano visivamente in tappeti che della natura hanno solo la prima origine, usandola poi come possibilità inventiva al limite del naturalistico. Poi la mimesi diretta non aveva più scopo stringente e Bogoni era ormai abbastanza certo da poter gestire e rischiare in proprio. Allora il segno insieme si astrae e nobilita, movimentandosi come un diario nevrile, come radiografia di ansie felici. Infatti le matasse grafiche sono pulviscoli, sono capelli capricciosi liberi, infinitamente liberi, ma altresì testimoni dei moti interiori che li hanno esteriorizzati nel gesto.
Bogoni a questo punto si sente padrone del mondo e, inarrestabile, collega, arricchisce, appronta sequenze e sceneggiature per le sue liberazioni sensibili (lui è il segno, il segno è il segno e Bogoni), e alla fine compresa con parsimonia l'irreprensibilità linguistica del segno, ne sviluppa le possibilità simboliche e discorsive, nella strana cronaca efficace delle sue galassie filiformi.
E le forme sempre più si inventano un loro spazio nello spazio sistemandosi indipendenti e libere da qualsiasi vincolo di ordine naturalistico. Poi, tendono a complicarsi, cercando appuntamenti e sdoppiandosi, sovrapponendosi, creando uno spazio prospettico all'infinito. Le composizioni sono immagini in quanto ritmo, e la materia, ora piena ora degradante, ne fa parte come componente rilevante. Infatti l'apporto degli inchiostri alla fine viene a esprimersi in pieno e non solo come campitura, come copertura di concretezze grafico-materiche, e allora non solo creano forme ma contribuiscono a variarle accendendole di luci mobili: proprio nel segno di un ininterrotto movimento.

Alessandro Mozzambani, 1968

"Gino Bogoni - Un maestro del XX secolo" di Michele De Luca, 2006

"Verona da vedere": lo studio dello scultore Gino Bogoni

"Diario d'Artista" di Gino Bogoni, 2006

"Dipingendo sulle ali delle farfalle (Libro - Testo Italiano/Inglese)" di Gino Bogoni, 2003

"Cosmi di Gino Bogoni. Cinquantenario della Glaxo in Italia 1932-1982 (Libro - Testo Italiano/Inglese)" di Gino Bogoni, 1983

 "CONCERTO IN BRONZO (Video)" di GINO BOGONI, Giugno 2011

"Lotus, scultura da suonare" di Anna Barina, 2011

"Frammento video tratto dal DVD "Concerto in bronzo" LOTUS - Omaggio a GINO BOGONI" Marzo 2011

"Opere di GINO BOGONI AL TEATRO FILARMONICO DI VERONA" 21 FEBBRAIO 2011

Video "Concerto in bronzo" di Gino Bogoni - Teatro Camploy 2008 - Verona